Letteratura inglese

William Shakespeare Romeo e Giulietta

William Shakespeare, Romeo and Juliet

An 1870 oil painting by Ford Madox Brown depicting the play’s famous balcony scene
Romeo e Giulietta, senza dubbio la più celebre tragedia shakespeariana, ha conosciuto innumerevoli rappresentazioni, traduzioni e adattamenti teatrali, musicali e cinematografici: ricordiamo qui, solo a titolo indicativo, che dal 1900 ad oggi esistono circa quaranta versioni cinematografiche dell’opera, e tra tutte merita certamente una menzione d’onore, sia per la sua aderenza storica che per la coreografica e ricercatissima regia, la versione del 1968 diretta da Franco Zeffirelli.

Romeo and Juliet, che si compone di cinque atti in versi e in prosa, fu scritta secondo alcuni da Shakespeare nel 1591, secondo altri nel 1595, fu pubblicata in in-quarto nel 1597, nel 1599, nel 1609, a un’altra data imprecisata, e infine nell’in-folio del 1623. Le relazioni tra i vari testi sono state minuziosamente studiate. Il motivo della morta viva, destinato a trovare la suprema espressione in questo dramma (a tal riguardo rimandiamo allo studio di H. Hauvette, La morte vivante, Paris 1933) giunto a Shakespeare per il tramite italiano, specialmente attraverso il lavoro di Matteo Bandello (1485-1561), fu divulgato all’estero da Pierre Boisteau; la versione di quest’ultimo fu a sua volta tradotta in inglese nel The Palace of Pleasure di William Painter, e resa liberamente da Arthur Brooke nel poema The Tragicall Historye of Romeus and Juliet, 1562, a cui attinse a piene mani Shakespeare. Si è tentato di stabilire una relazione tra il dramma di Shakespeare e quelli derivati dalla stessa fonte di Lope De Vega (Castelvines y Monteses), e di Luigi Groto, la cui Adriana (1578) contiene frasi e immagini che si ritrovano nel dramma di Shakespeare, ma che sono luoghi comuni del petrarchismo: i due drammi sono del resto diversissimi nel modo di trattare l’argomento e nello studio dei personaggi.

I Montecchi e i Capuleti (o Cappelletti), le due principali famiglie di Verona, sono nemiche. Romeo, figlio del vecchio Montecchi, partecipa, mascherato, a una festa in casa dei Capuleti, e mentre prima si credeva innamorato di Rosalina, ora scopre quel che sia la vera passione alla vista di Giulietta; dopo la festa, in cui i giovani si sono incontrati accendendosi di reciproco amore, Romeo, stando sotto la finestra di Giulietta, la ode confessare alla notte il suo amore per lui, e ottiene il suo consenso a un matrimonio segreto. Con l’aiuto di Frate Lorenzo si sposano il giorno seguente. Mercuzio, amico di Romeo, incontra Tebaldo, nipote di madonna Capuleti, furente per avere scoperto la presenza di Romeo alla festa: i due litigano. Romeo interviene e alla sfida di Tebaldo risponde con parole che adombrano il nuovo vincolo di parentela, e rifiuta di battersi. Mercuzio si indigna di tanta sottomissione e trae la spada; invano Romeo cerca di separare i contendenti; ottiene solo di offrire a Tebaldo il destro di colpire Mercuzio a morte. Allora anche Romeo è trascinato a combattere e uccide Tebaldo. Perciò egli è condannato al bando, e il giorno seguente, dopo avere passato la notte con Giulietta, lascia Verona per Mantova, esortato dal frate, che intende render di pubblica ragione il suo matrimonio al momento opportuno.

Giulietta, forzata dal padre a sposare il conte Paride e consigliata a farlo perfino dalla nutrice che prima aveva favorito la sua unione con Romeo, si lascia convincere da Frate Lorenzo ad acconsentire, ma, la vigilia delle nozze, berrà un narcotico, che la farà sembrare morta per quaranta ore; il frate stesso penserà ad avvisare Romeo, che la libererà dal sepolcro al suo risveglio e la condurrà a Mantova. Giulietta mette in opera il consiglio. Ma il messaggio non giunge a Romeo, perché il frate che doveva consegnarlo è trattenuto per sospetto di contagio; gli giunge invece la notizia della morte di Giulietta. Egli acquista da uno sciagurato speziale un potente veleno, e si reca al sepolcro per veder l’amata un’ultima volta: sull’ingresso, s’imbatte in Paride e lo uccide in combattimento. Quindi Romeo, dopo aver baciato Giulietta per l’ultima volta, beve il veleno. Giulietta si sveglia, trova Romeo morto, con la coppa ancora in mano. Si rende conto dell’accaduto, e si pugnala. Questa tragica fine è narrata dal frate (giunto troppo tardi per impedirla) e dal paggio del conte Paride, e i capi delle due famiglie avverse, commossi dalla catastrofe provocata dalla loro inimicizia, si riconciliano.

E’ stato parecchie volte notato dai critici come questa non sia una tragedia nel senso che lo saranno le grandi tragedie di Shakespeare, in quanto che essa non sgorga dai caratteri, ma è dovuta a una fortuita combinazione di circostanze esterne: tanto che nel Settecento si poté alterare la chiusa del dramma facendola lieta. Tuttavia la concezione di Shakespeare risulta tragica dalle stesse immagini che adopera, le quali mostrano come egli vedesse la storia dei due innamorati nella sua rapida e fatale bellezza, come un baleno quasi accecante, acceso di un subito, e altrettanto subitaneamente spento. Questa concezione si proietta contro uno sfondo artificiale “italianato” che è lo stesso di quello dei due primi drammi di Shakespeare (I due gentiluomini di Verona, Pene d’amore perdute). Di tutto il teatro shakespeariano, Romeo and Juliet è l’opera più ricca di ardite metafore; nei discorsi di Romeo, più ancora che nei Sonetti di Shakespeare, troviamo l’influsso dei concetti convenzionali dei precursori del secentismo. Ma l’artificialità, anziché rimanere solo amena decorazione come nei drammi di John Lyly e di Robert Greene, non fa che conferire un accento più patetico all’umana vicenda che la trascende, e l’angoscia e la morte non sono meno reali e commoventi per infierire in un lezioso giardino all’italiana, ma ne sono come circonfuse di bellezza.

Grande è la varietà delle note toccate in questo dramma che riassume il periodo iniziale e anticipa quello maturo di Shakespeare: leziosità di costumi, arguzia strana, purità di cuore e ardore di fantasia, apoteosi dell’amore e sua funebre pompa. E per questa commistione di elementi il dramma affascinò i romantici, non solo per le sue note più alte (ne sarà ispirato John Keats, la cui Vigilia di Sant’Agnese, è una variazione su un tema di questo dramma), ma anche per certi motivi macabri quali la scena del sepolcreto (che può aver influito su certe novelle fantastiche di E. A. Poe) e il discorso di Giulietta nella scena prima dell’atto IV (“Dimmi ch’io m’appiatti dove han nido le serpi”, v. 79), che sembra aver suggerito molte situazioni di “romanzi neri” della fine del Settecento.

Il dramma è, tra quelli di Shakespeare, forse il più diffuso e popolare, e numerosissime ne sono le imitazioni e le derivazioni in tutte le lingue, sebbene il valore di queste sia sovente assai scarso. In Inghilterra Thomas Otway nel 1679-80 trasportò col Caius Marius il dramma nell’antica Roma; in Italia ridusse il capolavoro di Shakespeare alle famose unità, sconciandolo, Luigi Scevola (1770-1879); in Francia J. F. Ducis (1733-1816) aveva sfigurato l’opera in un Roméo et Juliette (1772), ove scompare la figura di frate Lorenzo; il Montecchi, sull’esempio del dantesco conte Ugolino, divora in prigione i suoi figli, mentre Romeo diventa un formidabile guerriero ed è figlio adottivo del Capuleti, allevato accanto a Giulietta sotto falso nome.

Il nome delle casate nemiche dei Capuleti e dei Montecchi risuona per la prima volta nel versi di Dante. Ma è solo con la novella di Luigi Da Porto che su questi due nomi si innesta la vicenda tragica destinata a trasformarsi in mito: l’odio dei padri si incrocia funestamente con l’amore che nasce tra i figli e, complici avverse stelle, porta a morte e rovina. Un mito che si ripresenta più volte nell’immaginario della letteratura, pittura, musica, scultura, in tempi e luoghi assai diversi, e che trova nella scrittura, dopo Da Porto, in Shakespeare e in Keller, i suoi momenti più alti e più poetici.

Gaetano Algozino London, South Norwood 18 giugno 2015

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